Dal nostro corrispondente, oggi particolarmente ispirato, filosofico ed argutamente esistenzialista, Oscar Salvador
Uno dei pochi motivi, forse l’unico, per cui valga la pena vivere in India è sicuramente la cosiddetta “ricerca spirituale”.
Una ricerca che però troppo spesso diventa soprattutto esteriore, rivolta verso Dio, divinità, sette, sistemi filosofici (tutte cose di cui l’India abbonda), dimenticando che il primo passo verso la conoscenza spirituale avviene attraverso la conoscenza di sé stessi, come già diceva l’Oracolo di Delfi “Gnozi se authon”.
Solo conoscendo la propria “areté” (virtù) e i propri limiti, l’uomo potrebbe riuscire ad andare oltre e diventare davvero quello che è, come suggeriva anche Nietzsche “diventa quello che sei”, passaggio imprescindibile verso una vita felice.
Vivere in India aiuta molto in questo senso, non tanto per gli stimoli esteriori della ricerca spirituale, che seppur ben presenti come abbiamo detto sono piuttosto limitati e limitanti, ma per la forzata ricerca nel proprio sé della forza per sopportare i continui “assalti”, fisici e mentali, che si subiscono a contatto con la difficilissima vita indiana.
Ad esempio, il comune shock che caratterizza il primo impatto con l’India è dovuto nient’altro che ad un “attacco totale” ai cinque sensi.
Alla vista, con gli occhi spesso abbagliati dal sole accecante od irritati dalla onnipresente polvere quando tira anche solo che una bava d’aria; all’olfatto, a causa del tipico odore stantio-umido dell’aria indiana che richiede settimane prima di essere metabolizzato dalle narici (senza contare picchi estremi toccati ripetutamente da fogne a cielo aperto, rifiuti rimasti a marcire per strada per giorni, cadaveri di animali e numerose altre cose simili); all’udito, con rumori assordanti e soprattutto continui che metterebbero alla prova i timpani e la pazienza di chiunque; al gusto, difficilmente in India si assaggeranno sapori riconoscibili e difficilmente al di fuori dell’India si sarà mai mangiato qualcosa di così piccante come molti piatti indiani; infine al tatto, con l’onnicoprente polvere che fa sì che, toccando qualunque cosa, immancabilmente ci si sporchi.
Essendo i sensi responsabili degli stimoli alla mente, questi ripetuti “attacchi” la confondono completamente, sicché si trova di fronte ad un bivio: nascondere la realtà, cercando di negare quello che non riesce a comprendere, oppure cercando di trovare le capacità, quasi sempre recondite ma presenti, per sopportare con pazienza le varie vicissitudini fisiche e mentali.
O forse sarebbe meglio dire mentali e fisiche, visto che per resistere in certe difficili condizioni serve, prima di tutto, trovare la forza mentale, dalla quale deriverà di conseguenza quella fisica.
Proprio questa ricerca delle proprie capacità diventa di per sé lo stimolo necessario per sopportare le situazioni negative, che ormai a questo punto abbiamo capito essere in realtà la vera fonte delle nuove conoscenze e capacità.
È infatti noto, e dimostrabile, come la vera conoscenza nasca da una voluta e cercata sofferenza.
Tra le numerosissime cause che rendono la vita in India particolarmente difficile, spesso al limite dello stoicismo, una delle maggiori è il constatare come in molte situazioni non funzioni nulla o, quantomeno, le cose funzionano ma non nel modo in cui dovrebbero.
Prendendo come parametro la città di Varanasi, che in effetti essendo un luogo sacro, dal punto di vista della vita pratica è un parametro decisamente basso, ad esempio può capitare di spendere (e quindi perdere) una mattinata intera per una commissione semplicissima quale un prelievo con il bancomat.
Alla fine si riuscirà a tornare a casa con un bel malloppo di banconote da 500 o 1000 rupie, ma stravolti per aver girato i bancomat di mezza città nel delirante traffico e fatto code chilometriche sotto al sole, sgomitando con impazienti e maleducati indiani che cercano di infilarsi nella fila.
Certo questo non capita proprio sempre ma è un’eventualità che non si può mai scartare.
Questi fenomeni, che talvolta possono essere decisamente frustranti, hanno comunque i loro lati positivi, proprio per quanto riguarda la ricerca spirituale.
In particolare queste difficoltà aiutano, prima di tutto, a tirare fuori grinta, carattere ed ironia anche in situazioni apparentemente innocue; secondo, servono ad imparare la perseveranza e la pazienza, che nella vita torneranno sempre utili.
Ma soprattutto portano automaticamente a fare a meno di molte cose, in quanto ottenerle spesso richiede uno sforzo tale che supera i benefici e i piaceri che se ne trarrebbero una volta ottenute, e diventano quindi superflue.
Anche questa rinuncia, seppur in parte forzata, è sicuramente imprescindibile nel percorso verso la conoscenza spirituale; imparare a fare a meno di quasi tutto è il metodo migliore per perdere l’attaccamento, che di solito degenera in aspettativa, che spesso si tramuta in delusione.
Vivendo in India tutto questo diventa piacevolmente naturale e ci porta a pensare, parafrasando il grande filosofo trascendalista americano Henry Thoreau, che un uomo è tanto felice in proporzione al numero di cose di cui si può permettere di fare a meno.
E in India sono infinite le cose di cui si impara a fare a meno...