Intervengo sul discorso cristianesimo-induismo-nativi americani. Butto lì una riflessione giusto pour parler e senza alcuna vena polemica (ognuno ha la propria rispettabile visione ed esperienza).
La caratteristica del cristianesimo è l'uguaglianza, è vero, ma con una totale assenza di unità. Sono due cose profondamente diverse. Per l'unità ogni cosa è un diverso aspetto dell'identica realtà, per l'uguaglianza invece gli individui sono realtà diverse ma di uguale valore.
In India il concetto di uguaglianza è scarsamente professato poiché tutto si basa sul concetto di unità. “I saggi vedono con occhio equanime il bramino colto ed erudito, la vacca, l'elefante, il cane e chi mangia la carne di cane” dice la Bhagavad Gita. Ciò significa che l'unità è più importante dell'uguaglianza, poiché quando si raggiunge lo stato di “tutto è uno”, ci si accorge che le differenze tra individuo e individuo sono solo apparenze necessarie alla ricchezza della manifestazione, ma in realtà sia il bramino sia chi mangia la carne di cane (il fuori casta) sono due maschere della medesima realtà e l'unica cosa che hanno di uguale è il potenziale di realizzare la verità suprema.
Il cristianesimo, essendo di derivazione semitica ed accettando esclusivamente il concetto di un Dio creatore esterno (rifiuta sia il panteismo che la divinità interiore), non concepisce il concetto di unità e prova a risolvere il tutto con l'uguaglianza. Tutte le anime sono uguali davanti a Dio, mentre in India si dice tutte le anime sono lo stesso Dio in forme differenti. Cosa comporta? Che per la filosofia indiana le differenti condizioni di vita sono accettabili (dipendendo dalla differenza di sviluppo dell'anima) poiché tutti sono necessariamente diversi, l'unica cosa che accomuna le anime è l'origine divina e la gioia finale. Infatti, essendo tutti aspetti divini, nessuno può cadere eternamente in nessun inferno. Per il cristianesimo è l'opposto: uguaglianza fra tutti ma non unità con Dio, al massimo uno stato di vicinanza e comunione, con la possibilità di cadere perennemente in un inferno di separazione dal Padre. Questo è inconcepibile se si sperimenta l'unità, infatti in essa niente può separarsi per sempre.
Anche secondo i nativi americani “mitacuye oyasin”, ovvero “tutto è correlato”, o meglio “tutto è uno”, e quindi nessun uomo è uguale ad un altro come un'aquila è diversa da un bisonte, da un olmo, da un quarzo, da un ruscello, da una nuvola o da uno spirito antenato… ma tutto fa parte dell'Uno, del Wakan Tanka. Ogni cosa è diversa (niente uguaglianza) ma fa parte ed esprime una medesima realtà unitaria (unità).
Per mantenere il concetto di uguaglianza cristiano, è necessario imbastire una morale, un senso del peccato affinché gli uomini cerchino di non allontanarsi mai dall'uguaglianza, mentre quando si sperimenta che “tutto è uno” cadono tutte le morali forzate ed è impossibile concepire il peccato e il perdono del peccato poiché tutto diventa il gioco dell'Uno che agisce sull'Uno tramite l'Uno e non ci sono diverse entità che possono ferirsi e perdonarsi a vicenda.
In sintesi, forse il concetto di uguaglianza soddisfa più una mente che cerca ordine ed etica ma l'esperienza dell'unità sopravanza profondamente tutto questo, mettendo in ordine tutti gli apparenti contrasti che la mente non riesce ad incastrare, e preservando la ricchezza la profusione e la sovrabbondanza di varietà e dettagli differenti e apparentemente contrastanti dell'universo. Il concetto d'uguaglianza, essendo un prodotto mentale, cerca di armonizzare i contrasti appiattendo la varietà del creato e ponendo dei paletti sottrattivi, l'unità invece non è un prodotto mentale ma una realtà dell'anima e armonizza i contrasti con un abbraccio che ne rivela la divinità intrinseca con una percezione diretta, non mentale, che non ha bisogno di essere redenta da niente e nessuno né di conformarsi a nessuna regola.
Quando nel cristianesimo qualcuno prova a rompere l'uguaglianza e a rivendicare una propria divinità interiore, esso viene visto come un demone, un ribelle, un caduto, uscito dalla grazia di Dio e punibile con la fiamma eterna e l'eterna separazione da Dio; mentre in India cercare la propria divinità interiore a modo proprio è la prassi, e anche quando questa ricerca si perverte e l'anima si contrappone ai disegni divini divenendo un demone, un asura, un rakshasa, anche in quel caso si è sempre un aspetto del divino tutto e non esiste in serbo per esso nessuna dissoluzione totale o nessuna punizione eterna, ma solo un riassorbimento seguito da una nuova espressione di quel raggio con una nuova possibilità di armonizzarsi col resto degli aspetti.
Ed anche escludendo tutta l'erudizione (che non vale niente) e rinascendo vergini al mondo, senza alcun concetto e con la possibilità di osservare l'universo, mi pare sia evidente la non uguaglianza di niente (l'uomo sarebbe una forzata eccezione, nel caso funzionasse) poiché non esistono due stelle, due alberi, due linci, due coccinelle davvero uguali. La natura si è garantita, con la legge delle mutazioni genetiche, il diritto a rompere il più possibile l'uguaglianza ogni volta che ne ha la possibilità. Ed oltre a non avere uguali al mondo, l'individuo non è neanche mai uguale a se stesso, visto che nell'arco di una vista cambia completamente e continuamente scopi bisogni e strumenti d'espressione.
Quindi direi che l'uguaglianza è un surrogato che la mente impone a se stessa finché l'anima non gli rivela l'unità segreta di tutto, sabotandone i piani. Naturalmente la mente tende preventivamente a difendersi da questa visione perché ha l'innato istinto di sopravvivenza a proteggersi dall'infinito.
Torno in letargo.