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Sale drogué·e
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Io non sono il tipo che si ritrova nella fattoria di un estraneo nel cuore della notte
Tratto da "Se niente importa - perchè mangiamo gli animali?" di Jonathan Safran Foer
Sono vestito di nero nel cuore della notte nel bel mezzo del nulla. Porto copriscarpe sopra le scarpe usa e getta e guanti di lattice sulle mani che mi tremano. Mi tasto, controllando per la quinta volta di avere tutto: torcia con filtro rosso, carta d'identità, quaranta dollari in contanti, videocamera, copia dell'articolo 597e del codice penale californiano, bottiglia d'acqua (non per me), cellulare silenziato, trombetta. Spegniamo il motore e percorriamo a piedi l'ultima trentina di metri fino al punto individuato nel corso della giornata durante uno dei cinque o sei sopralluoghi preliminari. Fin qui non fa ancora paura.
Sono in compagnia di una militante animalista, C. Solo quando sono passato a prenderla mi sono reso conto di essermi immaginato qualcuno che ispirasse sicurezza. Invece C. è piccolina e minuta. Indossa occhialoni da aviatore e infradito e porta l'apparecchio per i denti.
«Hai un sacco di macchine» ho notato mentre ci allontanavamo da casa sua.
«Vivo ancora con i miei.»
Mentre percorrevamo l'autostrada - che la gente del posto chiama «Strada del sangue», sia per la frequenza degli incidenti sia per il numero di camion carichi di animali destinati al mattatoio che vi transitano - C. mi ha spiegato che qualche volta per «entrare» basta varcare un cancello aperto, anche se ormai è diventato sempre meno frequente, per via delle preoccupazioni sulla biosicurezza e dei «piantagrane». Di questi tempi è più probabile che si debbano scavalcare le recinzioni. Ogni tanto si accendono le luci e scattano gli allarmi. Può capitare che ci siano dei cani, e che i cani non siano legati. Una volta ha incontrato un toro che vagava libero tra i capannoni, in attesa di incornare qualche vegetariano ficcanaso.
«Toro» ho ripetuto, a metà fra la domanda e l'affermazione.
«Il maschio della mucca» ha detto lei brusca, mentre frugava in una borsa che sembrava piena di attrezzatura odontoiatrica.
«E se stanotte tu e io incontrassimo un toro?»
«Non succederà.»
Uno che mi stava incollato mi ha costretto a mettermi dietro a un camion stipato di polli diretti al macello.
«Per ipotesi.»
«Rimani fermissimo» mi ha consigliato C. «Non credo che vedano gli oggetti immobili.»
Se la domanda è: a C. è mai capitato qualcosa di serio durante una delle sue visite notturne?, la risposta è sì. C'è stata la volta che è caduta in una buca di letame con due conigli moribondi, uno per braccio, e si è ritrovata immersa (alla lettera) nella merda (alla lettera) fino al collo. E c'è stata la volta che è stata costretta a trascorrere la notte nel buio più nero con ventimila animali disperati e le loro esalazioni, dopo essersi chiusa per sbaglio dentro un capannone. E c'è stato il caso quasi fatale di Campylobacter che uno del suo gruppo si è beccato prendendo un pollo.
Si stavano accumulando piume sul parabrezza. Ho azionato i tergicristalli e le ho chiesto: «Che cos'è tutta quella roba che hai nella borsa?»
«Nel caso dovessimo fare un salvataggio.»
Non sapevo a cosa si riferisse, e non mi piaceva.
«Hai appena detto che non credi che i tori vedano gli oggetti immobili. Non ti pare una di quelle cose che dovresti assolutamente sapere? Non che io voglia rigirare il coltello nella piaga, ma...»
...ma in che razza di situazione mi sono cacciato? Io non sono un giornalista, un attivista, un veterinario, un avvocato o un filosofo, come sono, a quanto ne so, gli altri che hanno intrapreso un viaggio simile. Non sono preparato a tutto questo. E non sono capace di starmene immobile davanti a un toro da guardia.
Ci fermiamo sulla ghiaia nel punto concordato e aspettiamo che sugli orologi che abbiamo sincronizzato scattino le tre del mattino, l'ora stabilita. Il cane che avevamo visto durante il giorno non si sente, ma non è una grande consolazione. Prendo il foglietto dalla tasca e lo leggo un'ultima volta:
Nel caso in cui qualunque animale domestico in qualunque momento sia [...] rinchiuso e continui a esserlo senza il cibo e l'acqua necessari per più di dodici ore consecutive, è legale per chiunque entrare, quando lo si ritenga necessario, in qualunque recinzione in cui sia confinato l'animale e fornirgli il cibo e l'acqua necessari mentre rimane confinato. Questa persona non è punibile per l'ingresso...
Pur essendo legge dello stato, è rassicurante all'incirca come il silenzio di Cujo. Mi immagino un allevatore armato, svegliato dal sonno rem, che si imbatte in un saputello come me intento a verificare in quali condizioni vivono i suoi tacchini. Lui carica la doppietta, il mio sfintere si allenta, e poi? Tiro fuori l'articolo 597e del codice penale californiano? Così facendo il dito sul grilletto gli pruderà di più o di meno?
È ora.
Usiamo una mimica enfatica per comunicarci quello che con un semplice sussurro ci saremmo detti altrettanto bene. Ma abbiamo fatto voto di silenzio: non una parola fino a quando saremo sani e salvi sulla via di casa. Lo svolazzo di un dito inguantato di lattice significa: Andiamo.
«Prima tu» mi scappa.
E adesso la parte che fa paura.
L'intera triste faccenda
Abbiamo parcheggiato a qualche centinaio di metri di distanza perché C. da una foto satellitare aveva visto che era possibile avvicinarsi ai capannoni di nascosto passando per un frutteto li vicino. I nostri corpi piegano i rami mentre camminiamo in silenzio. A Brooklyn sono le sei del mattino, il che vuol dire che mio figlio si sveglierà presto. Si rigirerà nel lettino per qualche minuto, poi si metterà a urlare - dopo essersi tirato su senza sapere come fare a rimettersi giù - e mia moglie lo prenderà in braccio, lo porterà sulla sedia a dondolo, se lo stringerà al petto e lo allatterà. Potrei dimenticare o ignorare l'impatto di tutto questo - il viaggio in California, le parole che sto scrivendo a New York, le fattorie che ho visitato in Iowa, in Kansas e nello stretto di Puget - se non fossi un padre, un figlio, un nipote; se, come nessun altro al mondo, mangiassi da solo.
Circa venti minuti dopo, C. si ferma e si volta di novanta gradi. Non so come faccia a sapere di doversi fermare proprio lì, in corrispondenza di un albero che è impossibile distinguere dalle centinaia di altri che abbiamo passato. Camminiamo per un'altra decina di metri attraversando un reticolo di alberi identico e ci fermiamo, come due canoisti davanti a una cascata. Dal fogliame al limite del frutteto vedo, più o meno a una decina di metri, una recinzione di filo spinato e, oltre, il complesso della fattoria.
Come avrei appreso in seguito, la fattoria è costituita da una serie di sette capannoni, ognuno di quindici metri per centocinquanta, ognuno con all'interno circa venticinquemila tacchini.3
Accanto ai capannoni c'è un imponente silo granario, più simile a qualcosa di uscito da Biade Runner che dalla Casa nella prateria. L'esterno degli edifici è avviluppato da un reticolato di tubi e condotti metallici, grossi ventilatori sporgono rumorosi e cellule fotoelettriche scavano sacche illuminate a giorno stranamente definite. Tutti ci siamo fatti l'idea che in una fattoria ci siano campi, stalle, trattori e animali, o almeno una di queste cose. Dubito che sulla faccia della Terra esista un non addetto ai lavori che possa anche solo immaginare quello che sto vedendo. Eppure ho davanti a me il genere di fattoria che produce all'incirca il 99 per cento della carne consumata negli Stati Uniti.
Con i suoi guanti da astronauta C. apre un varco nel filo spinato quanto basta perché io riesca a sgusciarci attraverso. I miei pantaloni si impigliano e si lacerano, ma sono usa e getta, comprati apposta. C. mi passa i guanti e io tengo aperto il filo spinato per lei.
La superficie è simile a quella lunare. A ogni passo, il piede affonda in un compost di escrementi di animali, fango e non so che altro si sia riversato intorno ai capannoni. Devo arricciare le dita dei piedi per impedire che le scarpe rimangano intrappolate in quel lerciume appiccicoso. Sto accucciato per rimpicciolirmi il più possibile e tengo le mani contro le tasche per evitare il tintinnio del loro contenuto. Ci trasciniamo rapidi e in silenzio attraverso lo spiazzo vuoto fino a raggiungere la fila di capannoni, che ci riparano consentendoci di muoverci più liberamente. Enormi unità di ventilazione - una decina, ciascuna di circa un metro e venti di diametro - si aprono e si chiudono a intermittenza.
Ci avviciniamo al primo capannone. Una luce filtra da sotto la porta. È una notizia buona e al tempo stesso cattiva: buona perché non avremo bisogno di usare le torce che, mi dice C, spaventano gli animali, e nella peggiore delle ipotesi possono far stridere e agitare l'intera batteria; cattiva perché, se qualcuno dovesse aprire la porta per controllare cosa succede, sarebbe impossibile nascondersi. Mi chiedo perché un capannone pieno di animali debba essere illuminato a giorno nel cuore della notte.
Sento movimenti all'interno: il ronzio dei macchinari si fonde con quello che sembra il brusio del pubblico o un negozio di lampadari durante un lieve terremoto. C. armeggia con la porta, poi mi fa segno che dobbiamo spostarci verso il capannone successivo.
Passiamo parecchi minuti così, in cerca di una porta che non sia chiusa a chiave.
Un altro perché: Perché un allevatore dovrebbe chiudere a chiave le porte del suo allevamento di tacchini?
Non certo perché teme che qualcuno gli rubi le attrezzature o gli animali. Nei capannoni non ci sono attrezzature, e gli animali non valgono lo sforzo erculeo necessario per trasportarne illegalmente un numero sufficiente. Un allevatore non chiude a chiave le porte perché ha paura che gli animali scappino. (I tacchini non sanno girare le maniglie.) E nonostante i segnali, non è neppure per motivi di biosicurezza. (Il filo spinato basta e avanza per tenere lontani i curiosi.) Quindi perché?
Nei tre anni che avrei trascorso immerso nel comparto zootecnico, niente mi avrebbe turbato più delle porte chiuse a chiave. Niente rende meglio l'idea dell'intera triste faccenda dell'allevamento intensivo. E niente mi avrebbe maggiormente convinto a scrivere questo libro.
A quanto pare, le porte chiuse a chiave sono il meno. Non ho mai ricevuto risposta dalla Tyson Foods né da qualunque altra azienda cui abbia scritto. (Dire no manda un certo tipo di messaggio. Non prendersi neppure la briga di rispondere ne manda un altro.) Persino enti di ricerca con staff di collaboratori pagati si trovano costantemente intralciati dalla segretezza dell'industria. Quando l'autorevole e danarosa Pew Commission decise di finanziare uno studio di due anni per valutare l'impatto dell'allevamento intensivo, riferì:
La Pew Commission ha incontrato seri ostacoli nel completare la propria indagine e giungere a raccomandazioni condivise. [...] Di fatto, mentre alcuni rappresentanti dell'industria agricola avevano raccomandato allo staff della Pew Commission i potenziali autori per i report tecnici, altri dissuadevano quelle stesse persone dal collaborare con noi minacciandoli di negare i finanziamenti alla ricerca ai loro college o alle loro università. Abbiamo riscontrato un'influenza massiccia dell'agroindustria in ogni circostanza: nella ricerca accademica, nello sviluppo delle politiche agricole, nelle regolamentazioni governative e nell'applicazione delle normative.
L'industria zootecnica esercita la propria influenza politica sapendo che il proprio modello di business dipende dal fatto che i consumatori non hanno la possibilità di vedere (o sentire).
Il salvataggio
Voci giungono dal silo. Perché lavorano alle tre e mezzo del mattino? I macchinari sonò impegnativi. Che genere di macchinari? Lavorano a pieno regime nel cuore della notte. Cosa fanno?
«Eccone uno» sussurra C. Apre una fessura del pesante portone di legno, liberando un parallelogramma di luce, ed entra. Io la seguo, chiudendo la fessura di porta dietro di me. La prima cosa che cattura la mia attenzione è la fila di maschere antigas sul muro vicino. Perché dovrebbero esserci maschere antigas nel capannone di un allevamento?
Sgattaioliamo dentro. Ci sono decine di migliaia di pulcini di tacchino. Avendo le dimensioni di un pugno e le piume color segatura, sul pavimento cosparso di segatura sono quasi invisibili. I pulcini sono ammassati a gruppi, addormentati sotto le lampade installate per scaldarli artificialmente, sostituendo il calore delle madri. Dove sono le madri?
La densità ha un'orchestrazione matematica. Distolgo lo sguardo dai pulcini per un attimo e osservo l'edificio: luci, sistemi di alimentazione automatizzati, ventilatori e lampade riscaldanti distribuiti in modo uniforme in un giorno artificiale perfettamente calibrato. A parte gli animali, non c'è traccia di qualunque altra cosa che si possa definire «naturale», neppure un fazzoletto di terra o una finestra che lasci entrare la luce della luna. Mi sorprende come sia facile scordarsi di quella vita anonima e limitarsi ad ammirare la sinfonia tecnologica che regola con tanta precisione questo piccolo mondo a parte, constatare l'efficienza e la supremazia dei macchinari e arrivare a interpretare quei pennuti come estensioni o ingranaggi dei macchinari, non esseri viventi ma parti. Vedere le cose in qualunque altro modo richiede uno sforzo. Guardo un singolo pulcino, come lotta per spostarsi dalla periferia dell'ammasso raccolto intorno alla lampada riscaldante verso il centro. E poi un altro, proprio sotto la lampada, apparentemente contento come un cane in una pozza di luce. Poi un altro, che non si muove affatto, non sembra neppure che respiri.
Di primo acchito la situazione nel capannone non sembra pessima. È affollato, ma sembrano abbastanza felici. (I piccoli umani non sono forse tenuti chiusi in asili affollati?) E sono carini. L'euforia di infrangere la legge, e di vedere quello che ero venuto a vedere, e di trovarmi davanti tutti questi pulcini mi fa sentire piuttosto bene.
C. si è allontanata per dare un po' d'acqua ad alcuni piccoli dall'aspetto afflitto in un'altra parte del capannone, così io mi aggiro in punta di piedi, lasciando vaghe impronte nella segatura. Comincio a sentirmi più a mio agio con i tacchini, mi viene voglia di avvicinarmi di più, se non di prenderli in mano. (Il primo comandamento di C. è di non toccarli mai.) Più mi avvicino, più vedo. L'estremità del becco è annerita, così come le estremità delle zampe. Alcuni hanno macchie rosse in cima alla testa.
Gli animali sono così tanti che ci metto diversi minuti prima di rendermi conto di quanti sono quelli morti. Alcuni sono coperti di sangue, altri sono pieni di piaghe. Alcuni sembra siano stati beccati, altri sono disidratati e ammassati alla bell'e meglio come mucchi di foglie morte. Alcuni sono deformi. I morti sono l'eccezione, ma non c'è modo di girare lo sguardo senza vederne almeno uno.
Mi avvicino a C; sono trascorsi dieci minuti buoni e non ho questa gran voglia di approfittare della nostra fortuna. È inginocchiata su qualcosa. Mi avvicino e mi inginocchio accanto a lei. Un pulcino trema sul fianco, le zampe divaricate, gli occhi incrostati. Altre croste sporgono dalle aree implumi.
Il becco è leggermente aperto, la testa si agita avanti e indietro. Quand'è nato? Da una settimana? Due? È nato così o gli è successo qualcosa? Che cosa potrebbe essergli successo?
C. saprà che cosa fare, penso. Infatti è così.
Apre la borsa ed estrae un coltello. Tenendogli una mano sulla testa - lo sta tenendo fermo o gli sta coprendo gli occhi? - gli taglia il collo, salvandolo.
Il testo è un pò lungo, ma ha colpito nella testa e nel cuore.
Tratto da "Se niente importa - perchè mangiamo gli animali?" di Jonathan Safran Foer
Sono vestito di nero nel cuore della notte nel bel mezzo del nulla. Porto copriscarpe sopra le scarpe usa e getta e guanti di lattice sulle mani che mi tremano. Mi tasto, controllando per la quinta volta di avere tutto: torcia con filtro rosso, carta d'identità, quaranta dollari in contanti, videocamera, copia dell'articolo 597e del codice penale californiano, bottiglia d'acqua (non per me), cellulare silenziato, trombetta. Spegniamo il motore e percorriamo a piedi l'ultima trentina di metri fino al punto individuato nel corso della giornata durante uno dei cinque o sei sopralluoghi preliminari. Fin qui non fa ancora paura.
Sono in compagnia di una militante animalista, C. Solo quando sono passato a prenderla mi sono reso conto di essermi immaginato qualcuno che ispirasse sicurezza. Invece C. è piccolina e minuta. Indossa occhialoni da aviatore e infradito e porta l'apparecchio per i denti.
«Hai un sacco di macchine» ho notato mentre ci allontanavamo da casa sua.
«Vivo ancora con i miei.»
Mentre percorrevamo l'autostrada - che la gente del posto chiama «Strada del sangue», sia per la frequenza degli incidenti sia per il numero di camion carichi di animali destinati al mattatoio che vi transitano - C. mi ha spiegato che qualche volta per «entrare» basta varcare un cancello aperto, anche se ormai è diventato sempre meno frequente, per via delle preoccupazioni sulla biosicurezza e dei «piantagrane». Di questi tempi è più probabile che si debbano scavalcare le recinzioni. Ogni tanto si accendono le luci e scattano gli allarmi. Può capitare che ci siano dei cani, e che i cani non siano legati. Una volta ha incontrato un toro che vagava libero tra i capannoni, in attesa di incornare qualche vegetariano ficcanaso.
«Toro» ho ripetuto, a metà fra la domanda e l'affermazione.
«Il maschio della mucca» ha detto lei brusca, mentre frugava in una borsa che sembrava piena di attrezzatura odontoiatrica.
«E se stanotte tu e io incontrassimo un toro?»
«Non succederà.»
Uno che mi stava incollato mi ha costretto a mettermi dietro a un camion stipato di polli diretti al macello.
«Per ipotesi.»
«Rimani fermissimo» mi ha consigliato C. «Non credo che vedano gli oggetti immobili.»
Se la domanda è: a C. è mai capitato qualcosa di serio durante una delle sue visite notturne?, la risposta è sì. C'è stata la volta che è caduta in una buca di letame con due conigli moribondi, uno per braccio, e si è ritrovata immersa (alla lettera) nella merda (alla lettera) fino al collo. E c'è stata la volta che è stata costretta a trascorrere la notte nel buio più nero con ventimila animali disperati e le loro esalazioni, dopo essersi chiusa per sbaglio dentro un capannone. E c'è stato il caso quasi fatale di Campylobacter che uno del suo gruppo si è beccato prendendo un pollo.
Si stavano accumulando piume sul parabrezza. Ho azionato i tergicristalli e le ho chiesto: «Che cos'è tutta quella roba che hai nella borsa?»
«Nel caso dovessimo fare un salvataggio.»
Non sapevo a cosa si riferisse, e non mi piaceva.
«Hai appena detto che non credi che i tori vedano gli oggetti immobili. Non ti pare una di quelle cose che dovresti assolutamente sapere? Non che io voglia rigirare il coltello nella piaga, ma...»
...ma in che razza di situazione mi sono cacciato? Io non sono un giornalista, un attivista, un veterinario, un avvocato o un filosofo, come sono, a quanto ne so, gli altri che hanno intrapreso un viaggio simile. Non sono preparato a tutto questo. E non sono capace di starmene immobile davanti a un toro da guardia.
Ci fermiamo sulla ghiaia nel punto concordato e aspettiamo che sugli orologi che abbiamo sincronizzato scattino le tre del mattino, l'ora stabilita. Il cane che avevamo visto durante il giorno non si sente, ma non è una grande consolazione. Prendo il foglietto dalla tasca e lo leggo un'ultima volta:
Nel caso in cui qualunque animale domestico in qualunque momento sia [...] rinchiuso e continui a esserlo senza il cibo e l'acqua necessari per più di dodici ore consecutive, è legale per chiunque entrare, quando lo si ritenga necessario, in qualunque recinzione in cui sia confinato l'animale e fornirgli il cibo e l'acqua necessari mentre rimane confinato. Questa persona non è punibile per l'ingresso...
Pur essendo legge dello stato, è rassicurante all'incirca come il silenzio di Cujo. Mi immagino un allevatore armato, svegliato dal sonno rem, che si imbatte in un saputello come me intento a verificare in quali condizioni vivono i suoi tacchini. Lui carica la doppietta, il mio sfintere si allenta, e poi? Tiro fuori l'articolo 597e del codice penale californiano? Così facendo il dito sul grilletto gli pruderà di più o di meno?
È ora.
Usiamo una mimica enfatica per comunicarci quello che con un semplice sussurro ci saremmo detti altrettanto bene. Ma abbiamo fatto voto di silenzio: non una parola fino a quando saremo sani e salvi sulla via di casa. Lo svolazzo di un dito inguantato di lattice significa: Andiamo.
«Prima tu» mi scappa.
E adesso la parte che fa paura.
L'intera triste faccenda
Abbiamo parcheggiato a qualche centinaio di metri di distanza perché C. da una foto satellitare aveva visto che era possibile avvicinarsi ai capannoni di nascosto passando per un frutteto li vicino. I nostri corpi piegano i rami mentre camminiamo in silenzio. A Brooklyn sono le sei del mattino, il che vuol dire che mio figlio si sveglierà presto. Si rigirerà nel lettino per qualche minuto, poi si metterà a urlare - dopo essersi tirato su senza sapere come fare a rimettersi giù - e mia moglie lo prenderà in braccio, lo porterà sulla sedia a dondolo, se lo stringerà al petto e lo allatterà. Potrei dimenticare o ignorare l'impatto di tutto questo - il viaggio in California, le parole che sto scrivendo a New York, le fattorie che ho visitato in Iowa, in Kansas e nello stretto di Puget - se non fossi un padre, un figlio, un nipote; se, come nessun altro al mondo, mangiassi da solo.
Circa venti minuti dopo, C. si ferma e si volta di novanta gradi. Non so come faccia a sapere di doversi fermare proprio lì, in corrispondenza di un albero che è impossibile distinguere dalle centinaia di altri che abbiamo passato. Camminiamo per un'altra decina di metri attraversando un reticolo di alberi identico e ci fermiamo, come due canoisti davanti a una cascata. Dal fogliame al limite del frutteto vedo, più o meno a una decina di metri, una recinzione di filo spinato e, oltre, il complesso della fattoria.
Come avrei appreso in seguito, la fattoria è costituita da una serie di sette capannoni, ognuno di quindici metri per centocinquanta, ognuno con all'interno circa venticinquemila tacchini.3
Accanto ai capannoni c'è un imponente silo granario, più simile a qualcosa di uscito da Biade Runner che dalla Casa nella prateria. L'esterno degli edifici è avviluppato da un reticolato di tubi e condotti metallici, grossi ventilatori sporgono rumorosi e cellule fotoelettriche scavano sacche illuminate a giorno stranamente definite. Tutti ci siamo fatti l'idea che in una fattoria ci siano campi, stalle, trattori e animali, o almeno una di queste cose. Dubito che sulla faccia della Terra esista un non addetto ai lavori che possa anche solo immaginare quello che sto vedendo. Eppure ho davanti a me il genere di fattoria che produce all'incirca il 99 per cento della carne consumata negli Stati Uniti.
Con i suoi guanti da astronauta C. apre un varco nel filo spinato quanto basta perché io riesca a sgusciarci attraverso. I miei pantaloni si impigliano e si lacerano, ma sono usa e getta, comprati apposta. C. mi passa i guanti e io tengo aperto il filo spinato per lei.
La superficie è simile a quella lunare. A ogni passo, il piede affonda in un compost di escrementi di animali, fango e non so che altro si sia riversato intorno ai capannoni. Devo arricciare le dita dei piedi per impedire che le scarpe rimangano intrappolate in quel lerciume appiccicoso. Sto accucciato per rimpicciolirmi il più possibile e tengo le mani contro le tasche per evitare il tintinnio del loro contenuto. Ci trasciniamo rapidi e in silenzio attraverso lo spiazzo vuoto fino a raggiungere la fila di capannoni, che ci riparano consentendoci di muoverci più liberamente. Enormi unità di ventilazione - una decina, ciascuna di circa un metro e venti di diametro - si aprono e si chiudono a intermittenza.
Ci avviciniamo al primo capannone. Una luce filtra da sotto la porta. È una notizia buona e al tempo stesso cattiva: buona perché non avremo bisogno di usare le torce che, mi dice C, spaventano gli animali, e nella peggiore delle ipotesi possono far stridere e agitare l'intera batteria; cattiva perché, se qualcuno dovesse aprire la porta per controllare cosa succede, sarebbe impossibile nascondersi. Mi chiedo perché un capannone pieno di animali debba essere illuminato a giorno nel cuore della notte.
Sento movimenti all'interno: il ronzio dei macchinari si fonde con quello che sembra il brusio del pubblico o un negozio di lampadari durante un lieve terremoto. C. armeggia con la porta, poi mi fa segno che dobbiamo spostarci verso il capannone successivo.
Passiamo parecchi minuti così, in cerca di una porta che non sia chiusa a chiave.
Un altro perché: Perché un allevatore dovrebbe chiudere a chiave le porte del suo allevamento di tacchini?
Non certo perché teme che qualcuno gli rubi le attrezzature o gli animali. Nei capannoni non ci sono attrezzature, e gli animali non valgono lo sforzo erculeo necessario per trasportarne illegalmente un numero sufficiente. Un allevatore non chiude a chiave le porte perché ha paura che gli animali scappino. (I tacchini non sanno girare le maniglie.) E nonostante i segnali, non è neppure per motivi di biosicurezza. (Il filo spinato basta e avanza per tenere lontani i curiosi.) Quindi perché?
Nei tre anni che avrei trascorso immerso nel comparto zootecnico, niente mi avrebbe turbato più delle porte chiuse a chiave. Niente rende meglio l'idea dell'intera triste faccenda dell'allevamento intensivo. E niente mi avrebbe maggiormente convinto a scrivere questo libro.
A quanto pare, le porte chiuse a chiave sono il meno. Non ho mai ricevuto risposta dalla Tyson Foods né da qualunque altra azienda cui abbia scritto. (Dire no manda un certo tipo di messaggio. Non prendersi neppure la briga di rispondere ne manda un altro.) Persino enti di ricerca con staff di collaboratori pagati si trovano costantemente intralciati dalla segretezza dell'industria. Quando l'autorevole e danarosa Pew Commission decise di finanziare uno studio di due anni per valutare l'impatto dell'allevamento intensivo, riferì:
La Pew Commission ha incontrato seri ostacoli nel completare la propria indagine e giungere a raccomandazioni condivise. [...] Di fatto, mentre alcuni rappresentanti dell'industria agricola avevano raccomandato allo staff della Pew Commission i potenziali autori per i report tecnici, altri dissuadevano quelle stesse persone dal collaborare con noi minacciandoli di negare i finanziamenti alla ricerca ai loro college o alle loro università. Abbiamo riscontrato un'influenza massiccia dell'agroindustria in ogni circostanza: nella ricerca accademica, nello sviluppo delle politiche agricole, nelle regolamentazioni governative e nell'applicazione delle normative.
L'industria zootecnica esercita la propria influenza politica sapendo che il proprio modello di business dipende dal fatto che i consumatori non hanno la possibilità di vedere (o sentire).
Il salvataggio
Voci giungono dal silo. Perché lavorano alle tre e mezzo del mattino? I macchinari sonò impegnativi. Che genere di macchinari? Lavorano a pieno regime nel cuore della notte. Cosa fanno?
«Eccone uno» sussurra C. Apre una fessura del pesante portone di legno, liberando un parallelogramma di luce, ed entra. Io la seguo, chiudendo la fessura di porta dietro di me. La prima cosa che cattura la mia attenzione è la fila di maschere antigas sul muro vicino. Perché dovrebbero esserci maschere antigas nel capannone di un allevamento?
Sgattaioliamo dentro. Ci sono decine di migliaia di pulcini di tacchino. Avendo le dimensioni di un pugno e le piume color segatura, sul pavimento cosparso di segatura sono quasi invisibili. I pulcini sono ammassati a gruppi, addormentati sotto le lampade installate per scaldarli artificialmente, sostituendo il calore delle madri. Dove sono le madri?
La densità ha un'orchestrazione matematica. Distolgo lo sguardo dai pulcini per un attimo e osservo l'edificio: luci, sistemi di alimentazione automatizzati, ventilatori e lampade riscaldanti distribuiti in modo uniforme in un giorno artificiale perfettamente calibrato. A parte gli animali, non c'è traccia di qualunque altra cosa che si possa definire «naturale», neppure un fazzoletto di terra o una finestra che lasci entrare la luce della luna. Mi sorprende come sia facile scordarsi di quella vita anonima e limitarsi ad ammirare la sinfonia tecnologica che regola con tanta precisione questo piccolo mondo a parte, constatare l'efficienza e la supremazia dei macchinari e arrivare a interpretare quei pennuti come estensioni o ingranaggi dei macchinari, non esseri viventi ma parti. Vedere le cose in qualunque altro modo richiede uno sforzo. Guardo un singolo pulcino, come lotta per spostarsi dalla periferia dell'ammasso raccolto intorno alla lampada riscaldante verso il centro. E poi un altro, proprio sotto la lampada, apparentemente contento come un cane in una pozza di luce. Poi un altro, che non si muove affatto, non sembra neppure che respiri.
Di primo acchito la situazione nel capannone non sembra pessima. È affollato, ma sembrano abbastanza felici. (I piccoli umani non sono forse tenuti chiusi in asili affollati?) E sono carini. L'euforia di infrangere la legge, e di vedere quello che ero venuto a vedere, e di trovarmi davanti tutti questi pulcini mi fa sentire piuttosto bene.
C. si è allontanata per dare un po' d'acqua ad alcuni piccoli dall'aspetto afflitto in un'altra parte del capannone, così io mi aggiro in punta di piedi, lasciando vaghe impronte nella segatura. Comincio a sentirmi più a mio agio con i tacchini, mi viene voglia di avvicinarmi di più, se non di prenderli in mano. (Il primo comandamento di C. è di non toccarli mai.) Più mi avvicino, più vedo. L'estremità del becco è annerita, così come le estremità delle zampe. Alcuni hanno macchie rosse in cima alla testa.
Gli animali sono così tanti che ci metto diversi minuti prima di rendermi conto di quanti sono quelli morti. Alcuni sono coperti di sangue, altri sono pieni di piaghe. Alcuni sembra siano stati beccati, altri sono disidratati e ammassati alla bell'e meglio come mucchi di foglie morte. Alcuni sono deformi. I morti sono l'eccezione, ma non c'è modo di girare lo sguardo senza vederne almeno uno.
Mi avvicino a C; sono trascorsi dieci minuti buoni e non ho questa gran voglia di approfittare della nostra fortuna. È inginocchiata su qualcosa. Mi avvicino e mi inginocchio accanto a lei. Un pulcino trema sul fianco, le zampe divaricate, gli occhi incrostati. Altre croste sporgono dalle aree implumi.
Il becco è leggermente aperto, la testa si agita avanti e indietro. Quand'è nato? Da una settimana? Due? È nato così o gli è successo qualcosa? Che cosa potrebbe essergli successo?
C. saprà che cosa fare, penso. Infatti è così.
Apre la borsa ed estrae un coltello. Tenendogli una mano sulla testa - lo sta tenendo fermo o gli sta coprendo gli occhi? - gli taglia il collo, salvandolo.
Il testo è un pò lungo, ma ha colpito nella testa e nel cuore.