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Cani - Tratto da Zero zero zero di Saviano

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rango

Sale drogué·e
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2/2/12
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ho finito di leggere il libro qualche giorno fa, mi è davvero piaciuto e vi propongo questo parte, so che qui ci sono tanti amanti dei cani, come me, e questo capitolo fa riflettere

Cani

Il destino è scritto nel Dna. Così la pensava un medico napoletano che
finalmente si era arreso alle richieste del figlio: gli avrebbe regalato un
cane. Un cane di piccola taglia, d’espressione simpatica e di socievolezza
inesauribile. Un giorno chiese al figlio di seguirlo sul balcone perché lì
c’era una sorpresa che lo aspettava e mentalmente ripassò il discorso
che si era preparato. Un cane è un essere delicato che bisogna
rispettare ed educare, occorre essere pazienti ma severi, e soprattutto
fargli capire che il capobranco è l’uomo. Libertà sì, ma con regole ferme.
Premesse indispensabili, per di più se si tratta di un Jack Russell Terrier,
razza usata a tutt’oggi dai cacciatori per stanare le volpi. Il
temperamento coraggioso e vulcanico avrebbe costituito un impegno
importante per suo figlio, obbligandolo a confrontarsi con una delle sfide
cruciali per un cucciolo d’uomo: andare oltre le apparenze. Dietro agli
occhietti languidi e le richieste di coccole e attenzione del buffo
cagnolino, c’era un carattere straripante che andava disciplinato.
“Ci siamo capiti?”
“Certo, papà.”
Le cose funzionarono. Il bambino puliva dove il cane sporcava, lo
portava fuori, lo faceva giocare, gli impartiva i primi insegnamenti.
“Stai!” “Seduto!” “Fermo!” Il padre era gonfio d’orgoglio, anche se il
figlio starnutiva troppo spesso e aveva sempre gli occhi arrossati. È
medico e sa che quei sintomi sono inequivocabili: allergia al pelo di cane.
La decisione si stava facendo inevitabile. Il cane, ormai entrato a pieno
diritto nella famiglia, andava allontanato. Ma per il figlio la separazione
sarebbe stata un dolore straziante che rischiava di vanificare tutto ciò
che insieme avevano conseguito: l’educazione di un bambino attraverso
l’educazione di un animale coetaneo. D’ora in avanti, avrebbe potuto
colmare il vuoto aggrappandosi al dispiacere e al ricordo di una felicità
infranta. Oppure avrebbe potuto superare quello strappo, sostenendo la
prova più difficile per un cucciolo d’uomo: l’abitudine alla perdita.
Oggi quel cane è al servizio del Reparto cinofili della questura di
Napoli: è lì che lavora l’amico di famiglia a cui è stato affidato. Si chiama
Pocho, proprio come Lavezzi, e rappresenta il terrore dei pusher di
Scampia e Secondigliano, la punta di diamante dell’unità cinofila impegnata nel
contrasto della Camorra. Rispetto ai suoi colleghi, il
piccolo Pocho riesce a incunearsi nei passaggi più stretti e infilarsi nei
pertugi più angusti. Talento innato e conformazione fisica lo hanno reso
un aiuto preziosissimo, ma prima di diventarlo, ha dovuto sottoporsi a un
paziente percorso di addestramento. C’è stato il gioco, tanto gioco.
Perché per i cani antidroga scoprire una bustina di coca conficcata in una
crepa del muro equivale a un gioco. Molto divertente, anche. Si comincia
con una pallina da tennis o un asciugamano arrotolato. Si gioca al tiro
alla fune. È la fase dell’“attaccamento”, in cui i cani si legano all’oggetto
e al proprio conduttore. La fase in cui si forma la coppia uomo-cane,
affiatati e inseparabili. Nella seconda fase, l’oggetto-giocattolo viene
messo a contatto con minimi quantitativi di droga o di sostanze create in
laboratorio per riprodurne l’odore. È qui che si crea l’associazione tra
giocattolo e droga, tra premio e ricompensa. A quel punto, il gioco è
pronto per diventare lavoro. Un lavoro indispensabile e perciò ricco di
gratificazioni. Però anche di pericoli.
Senza Mike, impiegato per otto anni nel Reparto cinofili dei carabinieri
di Volpiano, in provincia di Torino, non si sarebbe scoperto l’abbondante
chilo di cocaina interrato sotto un palo della luce. Senza Labin, la
splendida femmina di pastore tedesco della guardia di finanza di Firenze,
che annusando i sedili di un’auto non si è lasciata ingannare da un
doppiofondo spalmato di catrame, altri dodici chili sarebbero transitati indisturbati.
Ragal, suo collega di razza e di mestiere al porto di
Civitavecchia, ha cominciato ad abbaiare furiosamente contro una
macchina appena sbarcata da Barcellona, vanificando la sicumera del
conduttore napoletano certo che i cani antidroga non avrebbero potuto
fiutare i suoi undici chili di cocaina purissima nascosta in panetti nascosti
all’olfatto con senape, caffè e gasolio. Ciro puntava dritto verso un tir
proveniente dalla Costa del Sol, strappando imprecazioni a denti stretti
al camionista di Castel Volturno. Ufa, che pattuglia l’aeroporto di
Fiumicino, è saltata addosso a un portabiti sul nastro trasportatore al cui
interno si trovavano due chili e mezzo di cocaina. Quasi ottocento
persone arrestate non hanno fatto i conti con Eola, veterana premiata
per i suoi dodici anni di carriera e gli oltre cento chili di cocaina
sequestrati.

Agata invece ha avuto una vita molto più travagliata. Sin da
giovanissima, ha lavorato all’aeroporto di Leticia, uno scalo merci nella
giungla dell’Amazzonia colombiana che rappresenta uno snodo
importante per i transiti di coca tra Brasile e Perú diretti verso gli Stati
Uniti. I narcos, stanchi di veder fermare gli aerei cargo da quel labrador
dall’aria docile e dal pelo dorato, hanno messo una taglia di diecimila
dollari sulla testa di Agata. Da allora fino all’età della pensione, ha
vissuto con una scorta ventiquattr’ore su ventiquattro e non ha mai più
potuto accettare mezzo bocconcino ghiotto da uno sconosciuto.

Boss, un labrador marrone di Rio de Janeiro, ha appena subìto lo stesso destino.
Nove poliziotti si danno il cambio per vegliarlo, da quando è stato
intercettato l’ordine di far fuori il “cioccolatino” capace di non lasciarsi
ingannare da finte pareti e olezzi fognari delle favelas. Scavano con foga,
abbaiano, raspano, graffiano un oggetto: è il segnale che la droga è
proprio lì. Il segnale che il gioco l’hanno vinto ancora una volta, pronti
per ricominciare da capo. Per altri il gioco non esiste proprio. Esiste solo
l’umiliazione di essere carne e sangue. Come Pay De Limón – torta al
limone – che insieme ad altre decine di suoi simili hanno subìto
mutilazioni e smembramenti da parte dei narcos messicani. È utile
addestrarsi su di loro prima di tagliare un dito alla vittima di
un’estorsione.

Labrador, pastori tedeschi, pastori belgi, ma spesso anche meticci
abbandonati, come Kristal che ha rischiato una brutta fine da randagio e
ora è arrivato a diventare uno dei segugi antidroga più formidabili di
Grosseto. La storia dei cani dal naso fino è assai più antica della loro
specializzazione nella caccia alla polvere bianca. In Italia ha alle spalle
quasi un secolo di successi, tra cui quello del 16 agosto 1924, quando il
cane del brigadiere dei carabinieri Ovidio Caratelli venne attirato da un
tanfo nella Macchia della Quartarella: era il corpo di Giacomo Matteotti,
sequestrato due mesi prima dalle squadracce di Mussolini.

Eppure il loro naso e il loro istinto tornano utili anche a chi, come la Camorra,
sta dall’altra parte. In un cortile condominiale delle Case
Celesti, i clan di Scampia tenevano come guardiani tre pastori tedeschi e
un rottweiler. Allevati alla brutalità in gabbie arrugginite tra bottiglie
rotte e rimasugli di cibo, si curavano di avvertire i padroni-pusher
dell’arrivo degli sbirri. I cani a servizio delle organizzazioni criminali non
svolgono solo il ruolo di fedeli sentinelle, ma sono usati anche come muli
insospettabili, capaci di trasportare ingenti quantitativi di droga da un
continente all’altro. Le femmine, poi, sono perfette: difficile dire se quel
rigonfiamento è dovuto a una gravidanza o a degli ovuli. Frispa e Rex, un
labrador nero e l’altro mielato, vennero scaricati nel 2003 ad
Amsterdam da un aereo cargo partito dalla Colombia. Uno era molto
agitato e aggressivo, l’altro sembrava debole e apatico. Le autorità,
insospettite, fecero un controllo. Trovarono delle cicatrici sulla pancia e i
raggi X confermarono il sospetto. Undici pacchetti di cocaina lunghi
come salsicciotti nello stomaco di Rex, dieci in quello di Frispa. Il cane
nero dovette essere abbattuto perché qualche involucro si era rotto,
mentre Rex, sottoposto a un’altra operazione e una lunga convalescenza,
fu salvato. Uno per tanti, troppi amici dell’uomo sacrificati.

Nell’estate del 2012, un uomo esce per fare due passi in una bella zona
di campagna vicino a Livorno. D’un tratto, avverte un tanfo fortissimo
che lo porta a fare una macabra scoperta: in mezzo a un campo c’è un
labrador squartato e sventrato. Pensa all’opera di un sadico, persino a
un rito satanico, e avvisa la polizia. Ma non passa nemmeno una settimana
che, di nuovo, sente quel puzzo di morte fresca: stavolta il cane, un
incrocio tra Dogue de Bordeaux e pitbull, ha il muso sigillato dal nastro
adesivo e dalla pancia aperta esce una busta di plastica. Non è un caso,
non è magia nera, ma la fine che la polvere bianca fa fare comunemente
ai suoi involontari corrieri a quattro zampe. Sarebbe troppo difficile far
espellere i pacchetti, meglio squartarli e recuperare la mercanzia. I cani
sono vittime e soldati di un impazzimento planetario che per loro resta
quello che è sempre stato: una prova di fedeltà data per gioco.
 
la scorta per il cane........ mai ci avrei pensato, eppure è logicissimo..


rango a dit:
I cani
sono vittime e soldati di un impazzimento planetario che per loro resta
quello che è sempre stato: una prova di fedeltà data per gioco.
 
libro stupendo...ti apre abbastanza la mente, nonostante quello che dicono Saviano è un grande
 
sono d'accordo, è un grande scrittore. I suoi libri si divorano....
 
eh devo fare sempre il bastan contrario, ma a me saviano non piace molto...
 
eh, è uno che tra le tante ha descritto napoli molto bene... ma chi è di napoli quelle cose, le sa molto bene. ha descritto ciò che là sapevano tutti....
i carcerati lo odiano
 
a me paice molto la sua scrittura, come descrive nell'ultimo libro le storie delle persone, dei paese coinvolti nelle attività di narcotraffico. Non parla più solo di Napoli. Poi nel finale del libro si confessa, e mi è piaciuta la sua sincerità:

testo tratto da Zero zero zero di Saviano

Ho guardato nell’abisso e sono diventato un mostro. Non poteva
andare diversamente. Con una mano sfiori l’origine della violenza, con
l’altra accarezzi le radici della ferocia. Con un occhio osservi le
fondamenta dei palazzi, con un orecchio ausculti il battito dei flussi
finanziari. All’inizio è un calderone oscuro, non vedi nulla, solo un
brulichio sotto la superficie, come di un verminaio che spinge per
spaccare la crosta. Poi le figure si compongono ma è ancora tutto
confuso, embrionale, sovrapposto. Ti spingi avanti, ti sforzi di chiamare a
raccolta i talenti dei tuoi sensi, ti sporgi sull’abisso. La cronologia dei
poteri acquista un senso, il sangue che prima si divideva in mille rivoli ora
confluisce in un fiume, il danaro smette di fluttuare e si posa a terra e lo
puoi contare. Ti sporgi un po’ di più. Ti arpioni con un piede sul ciglio;
ora sei quasi sospeso nel vuoto. E poi. . . buio. Come all’inizio ma questa
volta non c’è il brulichio, c’è solo una tavola liscia e lucida, uno specchio
di pece. E allora capisci che sei passato dall’altra parte, e ora è l’abisso
che vuole guardare dentro di te. Frugare. Dilaniare. Sprofondare.
L’abisso del narcotraffico che guarda dentro di te non è il rito tutto
sommato rassicurante dell’indignazione. Non è la paura che nulla abbia
senso. Sarebbe troppo semplice. Sarebbe troppo facile: hai individuato
un bersaglio, ora sta a te colpire, sta a te raddrizzare la situazione.
L’abisso del narcotraffico si apre su un mondo che funziona, che è
efficiente, che ha delle regole. Un mondo dotato di senso. E allora non ti
fidi più di nessuno. I media, la tua famiglia, i tuoi amici. Tutti raccontano
una realtà che per te è fasulla. Lentamente tutto ti è estraneo e il tuo
mondo si popola di nuovi protagonisti. I boss, le stragi, i processi. I
massacri, le torture, i cartelli. I dividendi, le azioni, le banche.
Tradimenti, sospetto, delazioni. La cocaina. Conosci solo loro e loro
conoscono te, ma questo non significa che quello che prima era il tuo
mondo scompaia. No. Continui a viverci in mezzo. Continui a fare quello
che facevi prima, ma adesso le domande che ti poni provengono
dall’abisso. L’imprenditore, il professore, il dirigente. Lo studente, il
lattaio, il poliziotto. L’amico, il parente, la fidanzata. Vengono anche loro
dall’abisso? E anche se sono onesti, quanto somigliano all’abisso? Non
hai il sospetto che siano tutti corrotti o mafiosi, è qualcosa di peggio. Hai
visto in faccia che cosa è l’uomo e vedi in tutti somiglianze con lo schifo
che conosci. Vedi l’ombra di ognuno.

Sono diventato un mostro.

Quando tutto ciò che hai intorno inizia a riguardare questo tipo di
riflessione. Quando inserisci tutto nell’universo di senso che hai costruito
osservando i poteri del narcotraffico. Quando tutto sembra avere senso
solo dall’altra parte, nell’abisso. Quando succede tutto questo, allora sei
diventato un mostro. Urli, sussurri, gridi le tue verità, perché hai paura
che altrimenti svaniscano. E tutto quello che hai sempre visto come
felicità, passeggiare, fare l’amore, stare in fila per un concerto, nuotare,
diventa superfluo. Secondario. Meno importante. Trascurabile. Ogni ora
ti appare incostante e vana se non dai energie alla scoperta, allo stanare,
al raccontare. Hai sacrificato tutto non solo per capire, ma per mostrare,
per indicare, per descrivere l’abisso. Valeva la pena? No. Non vale mai
la pena rinunciare a una qualche strada che porti alla felicità. Anche
piccola. Non vale mai la pena, nonostante tu creda che il sacrificio verrà
ricompensato dalla storia, dall’etica, dagli sguardi di approvazione. È
solo un momento. L’unico sacrificio possibile è quello che non si aspetta
ricompensa. Io non volevo sacrificio, non volevo ricompensa. Volevo
capire, scrivere, raccontare. A tutti. Andare porta per porta, casa per
casa, nottetempo e di mattina a condividere queste storie, a mostrare
queste ferite. Fiero d’aver scelto toni e parole giuste. Questo volevo. Ma
la ferita di queste storie mi ha inghiottito.

Per me è troppo tardi. Avrei dovuto mantenere distanze che non sono
riuscito a tracciare. È quello che dicono spesso i giornalisti anglosassoni:
non farsi coinvolgere; avere uno sguardo terso tra sé e l’oggetto. Non
l’ho mai avuto. Per me è il contrario. Esattamente il contrario. Avere uno
sguardo primo, dentro, contaminato. Essere cronisti non dei fatti ma
della propria anima. E sull’anima, come sul pongo, come sulla plastilina,
imprimere gli oggetti e le cose che si vedono, così che resti un calco
profondo. Ma un calco che può essere eliminato riassemblando quella
pasta. Ricompattandola. Alla fine della propria anima rimane una
struttura che poteva assumere mille forme ma non ne ha presa nessuna.
Andando dietro alle storie di narcotraffico impari a riconoscere il viso
delle persone. O meglio, te ne convinci. Impari a capire se uno è stato
amato da bambino, se gli hanno davvero voluto bene, se è stato accudito,
se è cresciuto con qualcuno a fianco, o se è dovuto scappare con la coda
fra le gambe sempre. Capisci subito che vita ha avuto. Se è stato isolato,
menato, buttato sulla strada. O se invece è stato viziato fino a marcire
nel benessere. Impari. E così impari a prendere le misure. Ma non
impari a distinguere il cattivo dal buono. Non sai chi ti sta fregando o chi
ti sta rubando l’anima, chi ti sta mentendo per avere un’intervista o chi ti
sta raccontando ciò che pensa tu voglia sentire per compiacerti e venire
immortalato dalle tue parole. La certezza me la porto dentro senza
troppe compiaciute malinconie: nessuno ti avvicina se non per ottenere
un favore. Un sorriso è un modo per abbassare le tue difese, una
relazione ha il fine di estorcerti danaro o una storia da raccontare a cena
o una foto da presentare a qualcuno come scalpo. Finisce che ragioni
come un mafioso, fai della paranoia la tua linea di condotta e ringrazi il
popolo dell’abisso per averti insegnato a sospettare. Lealtà e fiducia
diventano due parole sconosciute e sospette. Intorno hai nemici o
approfittatori. Questo è oggi il mio vivere. Complimenti a me stesso.
È troppo facile credere in ciò in cui credevo io all’inizio di questo
percorso. Credere in ciò che diceva Thoreau: “Non l’amore, non i soldi,
non la fama, datemi la verità”. Credevo che seguire queste strade, quei
fiumi, annusare i continenti, immergere le gambe nella mota potesse
servire a ottenere la verità: rinunciare a tutto per avere la verità. Non
funziona così, Thoreau. Non la si trova. Più ti avvicini a pensare di aver
capito come si muovono i mercati, più ti accosti alle ragioni di chi
corrompe chi ti è vicino, di chi fa aprire i ristoranti e fa chiudere le
banche, di chi è disposto a morire per danaro, più capisci i meccanismi e
più comprendi che era tutt’altra la strada che avresti dovuto prendere.
Per questo motivo non ho maggior rispetto verso di me, che vado
indagando, prendendo appunti, riempiendo agende, conservando sapori.
Non ho maggior rispetto verso di me alla fine di un percorso incapace di
darmi felicità e di condividerla. E forse non ho neanche consapevolezza
di questo. So solo che non potevo fare altro.

E se avessi fatto diversamente? Se avessi scelto la via lineare
dell’arte? Una vita da scrittore che qualcuno definirebbe puro, per
esempio, con le sue paturnie, le sue psicosi, la sua normalità. Racconta
storie ispirate. Arrovèllati su stile e narrazione. Non l’ho saputo fare. Mi
è capitata la vita del fuggiasco, del corridore di storie, del moltiplicatore
di racconti. La vita del protetto, del santo eretico, del colpevole se
mangia, del falso se digiuna, dell’ipocrita se si astiene. Sono un mostro,
com’è mostro chiunque si è sacrificato per qualcosa che ha creduto
superiore. Ma conservo ancora rispetto. Rispetto per chi legge. Per chi
strappa un tempo importante della sua vita per costruire nuova vita.
Nulla è più potente della lettura, nessuno è più bugiardo di chi afferma
che leggere un libro è un gesto passivo. Leggere, sentire, studiare,
capire è l’unico modo di costruire vita oltre alla vita, vita a fianco della
vita. Leggere è un atto pericoloso perché dà forma e dimensione alle
parole, le incarna e le disperde in ogni direzione. Capovolge tutto, fa
cadere dalle tasche del mondo monete e biglietti e polvere. Conoscere il
narcotraffico, conoscere il legame tra la razionalità del male e del
danaro, squarciare il velo che ottunde la supposta consapevolezza del
mondo. Conoscere è iniziare a cambiare. A chi queste storie non le butta
via, non le tralascia, le sente proprie, a queste persone va il mio rispetto.
Chi si sente addosso le parole, chi se le incide sulla pelle, chi si costruisce
un nuovo vocabolario, sta mutando il corso del mondo perché ha capito
come starci. È come spezzare le catene. Le parole sono azione, sono
tessuto connettivo. Solo chi conosce queste storie può difendersi da
queste storie. Solo chi le racconta al figlio, all’amico, al marito, solo chi
le porta nei luoghi pubblici, nei salotti, in aula, sta articolando una
possibilità di resistenza. Per chi sta da solo sull’abisso è come stare in
gabbia, ma se sono in molti a decidere di affrontare l’abisso, allora le
sbarre di quella cella si squagliano. E una cella senza sbarre non è più
una cella.
Nell’Apocalisse di Giovanni si dice: “Presi quel piccolo libro dalla mano
dell’angelo e lo mangiai: dolce come miele in bocca nelle viscere mi
divenne amaro”. Credo che i lettori dovrebbero fare questo con le
parole. Metterle in bocca, masticarle, triturarle e infine ingoiarle,
perché la chimica di cui sono composte faccia effetto dentro di noi e
illumini le turbolenze insopportabili della notte, tracciando la linea che
distingue la felicità dal dolore.
Hai come un senso di vuoto quando le tue parole sembrano essere
valorizzate dalla minaccia che attirano, come se tutto quello che dici
d’improvviso venisse ascoltato solo perché rischia di portarti alla morte.
Accade questo: accade che il silenzio su questi temi non esista. Esiste il
brusio: notizia d’agenzia, processi, il narco arrestato. Tutto diventa
fisiologico. E quando tutto diventa fisiologico non se ne accorge più
nessuno. E così qualcuno scrive: scrivendo muore, scrivendo viene
minacciato, scrivendo inciampa. Quando arriva la minaccia, sembra che
per un po’ di tempo una parte di mondo si accorga di quello che è stato
scritto. Poi dimentica. La verità è che non c’è alternativa. La coca è un
carburante. La coca è energia devastante, terribile, mortale. Gli arresti
sembrano non bastare mai. Le politiche di contrasto sembrano sempre
sbagliare obiettivo. Per quanto possa sembrare terribile, la
legalizzazione totale delle droghe potrebbe essere l’unica risposta.
Forse una risposta orrenda, orribile, angosciosa. Ma l’unica possibile per
bloccare tutto. Per fermare i fatturati che si gonfiano. Per fermare la
guerra. O almeno è l’unica risposta che viene da dare quando alla fine di
tutto ci si domanda: e ora che si fa?

Sono anni che nella mia testa ogni giorno mi lascio travolgere dalle
voci. Le voci di chi grida a pieni polmoni che l’alcol è la sostanza che
miete più vittime. Sono voci acute e martellanti, che di tanto in tanto
vengono zittite da altre voci, che si ergono baldanzose affermando che sì,
certo, l’alcol fa male, ma solo se ne abusi, se il boccale di birra del
sabato sera si trasforma in un’abitudine, e che c’è una bella differenza
con la coca. Poi parte il coro di quelli che pensano che la legalizzazione
sia il male minore; in fondo, suggeriscono le voci, la coca legale avrebbe
anche un controllo medico. E allora legalizziamo gli omicidi!, ribatte una
voce portentosa, da baritono, che per un attimo zittisce tutti. Ma il
silenzio dura poco perché come stilettate arrivano rincorrendosi le
gracchianti reazioni di chi sostiene che chi si droga in fondo fa male solo
a se stesso, che se si vieta la cocaina allora bisogna vietare il tabacco,
che se si dice sì, allora lo Stato è uno Stato-pusher, uno Stato criminale.
E le armi, allora? Non sono peggio? Al che un’altra voce ancora – questa
pacata, con una sfumatura di saccenza che si incastra sulle consonanti –
afferma che le armi servono a difendersi, il tabacco lo puoi usare con
moderazione e. . . Ma in fondo è un problema etico, e chi siamo noi per
imbrigliare con regole e decreti una scelta personale?
A questo punto le voci prendono ad accavallarsi e tutto si fa indistinto.
Il guazzabuglio di voci finisce sempre così. Con il silenzio. E devo
ripartire da capo. Ma sono convinto che la legalizzazione potrebbe
davvero essere la soluzione. Perché va a colpire là dove la cocaina trova
il suo terreno fertile, nella legge economica della domanda e dell’offerta.
Prosciugando la richiesta, tutto ciò che sta a monte avvizzirebbe come
un fiore privato dell’acqua. È un azzardo? È fantasia? Il delirio di un
mostro? Forse. O forse no. Forse è un altro frammento dell’abisso che in
pochi hanno il coraggio di affrontare.
Per me la parola “narcocapitalismo” è diventata un bolo che non fa che
gonfiarsi. Non riesco a deglutirlo, ogni sforzo va nella direzione opposta,
e rischio di morire soffocato. Tutte le parole che mastico si appiccicano
al bolo, e la massa si espande, come un tumore. Vorrei buttarlo giù e
lasciare che venga attaccato dai succhi gastrici. Vorrei fonderla, questa
parola, e afferrarne il nucleo. Ma non è possibile. Ed è anche inutile
perché so già che troverei un granello di polvere bianca. Un granello di
cocaina. Per quanto possano esserci polizie e sequestri, la richiesta di
coca sarà sempre enorme: più il mondo diventa veloce, più c’è coca; più
non c’è tempo per rapporti stabili, per scambi reali, più c’è coca.
Mi calmo, mi devo calmare. Mi sdraio, guardo il soffitto. Ne ho
collezionati molti in questi anni, di soffitti. Da quelli quasi vicino al naso
che tocchi se solo alzi il collo a quelli lontanissimi che devi strizzare gli
occhi per capire se ci sono affreschi o macchie d’umidità. Guardo il
soffitto e immagino l’intero globo. Il mondo è una pasta tonda che lievita.
Lievita attraverso il petrolio. Lievita attraverso il coltan. Lievita
attraverso i gas. Lievita attraverso il web. Tolti questi ingredienti,
rischia di afflosciarsi, decrescere. Ma c’è un ingrediente più veloce di
tutti e che tutti vogliono. Ed è la coca. Un ingrediente senza il quale non
potrebbe esistere nessuna pasta. Proprio come la farina. E non una
farina qualsiasi. Una farina di qualità. La migliore qualità di farina: 000
 
beh, leggendo queste righe ce lo vedevo proprio bene saviano in quel dibattito a la7 con giovanardi..
 
sai perchè non mi piace? Il modo di scrivere, è emotivo, epico, una prosa ricercata ma che non vuole prenderti alla testa ma al cuore e allo stomaco. In una parola, personalmente, mi sembra che spettacolarizzi i fenomeni di cui parla, li presenta come grotteschi e deformi, come giustamente sono, ma l'immagine che da della vicenda è una sua personale visione, che però viene presentata come "i fatti".

Poi a dire il vero i suoi punti di vista su: israele, polizia, stato e "morale" sono molto distanti dai miei...

Per me saviano sarà sempre quello che ci fa commuovere per i bambini delle vele di secondigliano e poi dice pubblicamente che israele è terra di pace, libertà e integrazione sociale. Perchè quella era la cosa da dire in quel momento che gli avrebbe dato piu successo...

So che questo modo di pensare è controcorrente rispetto al main stream, ma forse se le critiche piu feroci a Saviano arrivano dai napoletani, e sopratutto dai napoletani onesti, un motivo ci sarà...
 
si il modo di scrivere molto spettacolare e emotivo sta un po' sul cazzo anche a me, ma i contenuti sono scritti bene..quando si mette a descrivere qualcosa lo fa da giornalista vero, poi negli intermezzi inizia a scassare un po' le palle...però sia gomorra che zero zero zero mi hanno aperto abbastanza la testa.....Il bello di Saviano è che indaga e parla pubblicamente di cose, di persone, di schemi, che magari sono ben conosciuti a chi è in quell'ambiente, ma che sono totalmente sconosciuti agli altri, Un qualsiasi napoletano gia sapeva molte di quelle cose scritte in gomorra, ma uno di un'altra regione assolutamente no...E le persone, i metodi, la logistica, i "nuovi mestieri" descritti in zero zero zero dubito che le persone "non addette ai lavori" ne sapessero qualcosa. Di solito si ha solo una vaga idea su quelle cose che scrive . Per le altre idee che ha sul resto delle cose non ne ho idea, non ho letto nient'altro e non ho mai visto un suo intervento/trasmissione in tv, probabilmente se approfondissi le cose che ha detto su israele che Nullè ha appena accennato, forse cambierei idea su di lui...
 
sono contento che dia spunti di riflessioni comunque... Non è che critico quello che fa di per se, sono le posizioni e i modi che non mi convincono... Comunque vabbhe interessante di sicuro...
 
sono d'accordo con te Hendrix, Saviano porta alla luce metodi e mentalità che per esempio io non conoscevo, se non molto superficialmente.
Davvero questo libro mi ha appassionato, si è vero Nullè lui ha uno stile che punta al cuore e stomaco, e a me questo piace. Ma ci vedo anche una parte di reportage giornalistico, quando descrive le organizzazioni e il loro modo di agire. Mi sembra di capire che per ottenere queste informazioni non se le sia fatte raccontare e basta, ma è andato sul posto per conoscere il modo di agire diverso da una nazione all'altra...
Nullè se non l'hai ancora letto e se ti va te lo giro in formato ebook! :)

Su Israele e pace nel mondo non conosco bene la posizione di Saviano, quando ci scriverà sopra un libro darò un giudizio....poi questo tema potrebbe creare un thread molto acceso...
 
Ricordo ancora quanto ero incazzato per questi ritrovamenti a Livorno!!!
In zona "La Puzzolente", una area boschiva dove i nord-africani si nascondono e vendono cocaina...
Poveri cani...
 
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